Proponiamo una riflessione di Antonio Bonaldi su un tema su cui ci piacerebbe ricevere commenti, pensieri, ulteriori riflessioni:  “Cosa è scientifico in medicina? E solo ciò che è scientifico ha dignità di cura?”


L’articolo di Antonio Bonaldi ha aperto un vivace confronto su uno dei temi epistemologici maggiormente discussi, in particolare in ambito medico: 

  • Che differenza c’è tra conoscenza e scienza?
  • Ogni forma di conoscenza “non scientifica” rischia di sconfinare nell’irrazionale? 
  • Una medicina slow, a basso impatto tecnologico, apre più o meno consapevolmente a pratiche terapeutiche “magiche” o comunque molto discutibili? 
  • Il rigore scientifico è sufficiente a difendere la ricerca dalla manomissione del potere?

Riportiamo qui alcune risposte critiche a queste domande a nostro avviso fondamentali.

Vi invitiamo a intervenire nella discussione, sempre avendo in mente che non parliamo di “medicina” in generale ma specificamente di medicina slow. Indirizzate i commenti a abonaldi@libero.it


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Gestire la non-conoscenza in medicina

La medicina è ritenuta da molti una scienza (per alcuni addirittura una scienza esatta) e come tale deve innanzitutto rispettare i canoni e i principi del metodo scientifico, che negli ultimi tre secoli si è riconosciuto nel modello riduzionista. La questione si è fatta più incalzante con l’avvento dell’Evidence Based Medicine (EBM), secondo cui le conoscenze sono acquisite attraverso studi rigorosamente scientifici (clinical trials) e le decisioni dei professionisti della salute devono essere coerenti con tali conoscenze. Il resto non conta, è solo frutto della credulità, se non addirittura oggetto di scherno e derisione.

Sul fatto che gli interventi medici dovrebbero tener conto delle migliori conoscenze scientifiche, sono teoricamente tutti d’accordo, ma a dire il vero, nella quotidianità le cose non stanno proprio così. Per esempio, secondo il Clinical Evidence Handbook (il testo che sintetizza le migliori conoscenze scientifiche) solo l’11% di oltre tremila prestazioni cliniche di uso corrente si fondano su chiare prove di efficacia (1). Dunque, con buona pace degli “evidentologi”, gran parte di ciò che costituisce l’odierna medicina non si basa affatto su prove scientifiche, né pare lo potrà essere per molto tempo ancora. Oltretutto, Joannidis ci rammenta che “la maggior parte dei risultati delle ricerche scientifiche è falsa” (2), mentre i sensazionali annunci di cure miracolose sono spesso smentiti da studi successivi, o semplicemente le evidenze si modifichino nel corso del tempo, minando le nostre certezze.

È necessario, quindi rassegnarsi al fatto che nonostante gli straordinari progressi raggiunti in alcuni campi della medicina, di fatto molto di ciò che determina la salute o la malattia rimane ignoto, dobbiamo cioè saper convivere con l’incertezza e l’ignoranza. Ciò riguarda sia le patologie che minacciano la vita (tumori, malattie vascolari, malattie mentali e neurologiche, malattie rare) sia i piccoli disturbi e i vaghi malesseri di cui la nostra esistenza è intrisa e per i quali ciascuno di noi trova piccoli espedienti, trucchi e rimedi antichi o moderni, non certo evidence-based, ma che molte volte, almeno per il diretto interessato, funzionano. Per capire la dimensione del fenomeno basti ricordare che il 90% delle persone riferisce che nell’ultima settimana ha sofferto di sintomi verso i quali la medicina è piuttosto impotente, quali, ad esempio: mal di schiena, affaticamento, mal di testa, congestione nasale, disturbi del sonno, dolori articolari o muscolari, irritabilità, ansietà, perdita di memoria e via discorrendo (3).

Il problema è che la gente dal medico ci va con l’idea di trovare una soluzione a tutte le sue malattie e a tutti i suoi malesseri. In altre parole, il paziente vuole individuare una causa del suo star male, dare un nome ai sintomi e ricevere una cura. Ma soprattutto, la gente chiede di essere ascoltata e di non sentirsi dire che il suo disturbo è un’invenzione, non è contemplato dalla medicina, è solo una questione psicologica e che non vi sono rimedi. In genere il paziente è portato a credere che tali risposte siano da attribuire all’ignoranza di quel medico e che da qualche parte ci deve essere qualcuno che conosce il suo problema e che le saprà suggerire una soluzione, non importa se scientifica o meno. Non per nulla oltre la metà della popolazione, benché convinta che la medicina sia una scienza esatta, non è soddisfatta delle cure che riceve e dopo aver peregrinato nei tortuosi meandri della scienza ufficiale, approda alle medicine alternative. I loro cultori, infatti, (più o meno in buona fede) hanno imparato a gestire anche ciò che non conoscono: e ciò non è un male.

Il medico moderno e scrupoloso, invece, coerentemente con quanto gli è stato insegnato per tutto il corso degli studi, è costretto ad agire in modo scientifico e si trova, quindi, completamente disorientato e impotente di fronte alla valanga di problemi che non può gestire attraverso i canoni della scienza e per i quali cerca precarie soluzioni, ricorrendo alla tecnologia (l’unico strumento che ha imparato ad usare): esami sempre più approfonditi, non scevri di effetti negativi e rinvii a specialisti di ogni genere. Molti di questi problemi, infatti, appartengono alla sfera della non-conoscenza, un’area di grande impatto sulla quotidianità, ma tuttora inesplorata e completamente ignorata dalla medicina ufficiale e dai percorsi di formazione dei professionisti della salute.

Oltretutto, questo rigido atteggiamento scientifico, apparentemente ineccepibile, impedisce di ricorrere all’effetto placebo, un potente strumento di cura, in grado di risvegliare le straordinarie capacità di difesa e di guarigione presenti in ciascuno di noi (vis sanatrix naturae). Purtroppo, anche questo effetto, pur ben dimostrabile e oggetto di ricerca, risulta ancora poco conosciuto e come tutto ciò che non si conosce e non si può spiegare, ha assunto un valore negativo. Il medico-scienziato si guarda bene, quindi, dall’utilizzarlo, lasciando sguarnito l’intero campo d’azione che è stato prontamente occupato dalle medicine “altre”.

Sciamani, maghi e stregoni hanno da sempre basato le loro cure proprio sulla capacità di prendersi carico dei problemi e di agire sulla persona e sulle sue capacità di reazione. Anche in un recente passato il medico, pur avvalendosi quasi esclusivamente della relazione e della parola era in grado di far fronte a molti problemi e godeva, più di oggi, di autorevolezza, rispetto e prestigio. Contesto, empatia, aspettativa di un beneficio possono modificare favorevolmente il decorso di una malattia, indipendentemente da ciò che costituisce la prescrizione, perché sono fattori che agiscono sulle forze interne dell’individuo (4).

I cultori delle medicine “altre”, fondano i loro successi proprio su questi effetti, di cui poco sappiamo. Per loro non c’è un’area della non-conoscenza, a tutto possono dare un nome, hanno sempre una risposta sicura, una parola di speranza e una cura per ogni problema, piccolo o grande che sia. Al paziente non importa in cosa consiste la cura e se sia registrata nei testi evidence-based; basta che funzioni. La stessa acqua con un nome diverso magari scritto in latino, guardare l’iride, recitare una preghiera, attenersi a qualche rituale, … Certo non è scientifico ma funziona. Sono gli stessi pazienti che ve lo confermano e oltretutto non producono effetti collaterali e dannosi. Che vogliamo di più?

Perché la medicina scientifica, quando non dispone di risposte sicure e scientificamente efficaci, è costretta a rinunciare a tutto questo. C’è un modo serio e pragmatico per ottenere i medesimi risultati? C’è un modo per sottrarre la sfera della non-conoscenza ai mercanti e ai venditori di elisir?

Bibliografia

  1. BMJ Evidence Center: Clinical evidence Handbook 2012.
  2. Ioannidis JPA: Why Most Published Research Findings Are False. PLoS Med 2015; 2(8): e124.
  3. Petrie KJ et al: How common are symptoms? Evidence from a New Zealand national telephone survey. BMJ Open 2014; 4:e005374.
  4. Benedetti F: Il cervello del paziente. Giovanni Fioriti Editore; 2012.

Antonio Bonaldi, 21 marzo 2016


 

Le vostre risposte:


Stefano Ricci – Direttore UO Neurologia USL Umbria 1 Editor Cochrane Stroke Group

L’articolo del collega Bonaldi sorprende per diverse affermazioni, che partono peraltro tutte da una definizione inesatta (dove è scritta una cosa simile?) di EBM. Si legge infatti” le conoscenze ….. sono acquisite solo attraverso studi rigorosamente scientifici (clinical trials) e le decisioni dei professionisti della salute devono essere coerenti con tali conoscenze. Il resto non conta….”

Ora, la definizione da cui è nata la EBM è molto diversa: secondo uno dei suoi padri, David Sackett, la EBM è “l’uso giudizioso, coscienzioso ed esplicito della migliore evidenza disponibile nel prendere decisioni relative alla cura di singoli pazienti”. Perché ciò avvenga, è necessario che la pratica sanitaria sia basata sui seguenti tre aspetti:

  1. La migliore evidenza disponibile dalla ricerca 
  2. L’esperienza clinica del professionista 
  3. Le opinioni, le preferenze e le considerazioni dei pazienti.

Questi 3 aspetti hanno assolutamente pari dignità, e sta al clinico gestirne l’ embricazione nella sua attività quotidiana. Il che, pare ovvio, richiede ampia e critica conoscenza della letteratura scientifica (nel senso che non si deve “bere” un risultato, ma leggere il lavoro e saperlo interpretare e criticare, fino anche –se opportuno- ad ignorarne i risultati perché non applicabili alla propria realtà o perché troppo incerti). È vero, come dice il Collega Bonaldi, che le evidenze si modificano nel tempo (meno male, vuol dire che andiamo avanti!); è per questo che tutti noi dobbiamo continuare a studiare e leggere la letteratura scientifica, sempre con occhio addestrato alla critica; se così non fosse, basterebbe aver conseguito la laurea e non dovremmo più preoccuparci!

Un’altra affermazione sorprendente è quella secondo la quale i piccoli rimedi (di cui tutti facciamo uso professionale) non sarebbero “evidence based”. E perché? A parte il fatto che vi sono studi randomizzati anche su “piccole” soluzioni terapeutiche, l’ EBM si basa sulla migliore evidenza disponibile (non su quella auspicabile), e quindi, se la migliore evidenza disponibile è rappresentata da serie di pazienti trattati da un clinico, quella si usa. Se mai, come scriveva già molti anni fa il Centro per la EBM di Oxford, dovremo per correttezza dire a chi ci chiede il parere che la nostra posizione è basata su evidenze tecnicamente “deboli”, ma che non vi è di meglio da cercare. Tanto per esemplificare, pochi giorni fa chi scrive ha consigliato alla giovane Collega di guardia una terapia che non ha alle spalle trials convincenti, ma che, nella particolare circostanza clinica (edema vasogenico da tumore cerebrale con deterioramento clinico che non aveva risposto adeguatamente agli steroidi) appariva di possibile utilità, almeno a breve termine. E chi scrive, non serve ribadirlo, è un sostenitore strenuo della EBM!

Sul tema della eccessiva richiesta di esami, poi, è vero il contrario di quanto si afferma: è proprio la mancanza di conoscenze scientifiche a far chiedere troppo, mentre la letteratura scientifica indirizza ad un uso più oculato e mirato dei test. Nel campo di chi scrive, ad esempio, la enorme richiesta di ecodoppler delle carotidi non è giustificata da evidenze di sorta, che invece indurrebbero (se correttamente interpretate) a chiedere l’ esame solo nella prospettiva di una soluzione chirurgica del problema (in pazienti con sintomi ascrivibili alla patologia carotidea).

Infine, per quanto attiene all’ effetto placebo, non si vede come non possa far parte del bagaglio della EBM: oltretutto, è stato studiato in trials clinici come e meglio di molti rimedi terapeutici.

Rispondo quindi alla domanda dell’ultima riga dello scritto del Collega Bonaldi: il modo serio e pragmatico per sottrarre la sfera della non conoscenza ai mercanti ed ai venditori di elisir esiste, ed è l’applicazione della medicina basata sull’ evidenza, nella sua corretta e completa accezione.


Teresa Cantisani*, Cristina Cusi*, M. Grazia Celani*, Silvia Minozzi e Mariolina CongedoCochrane Neurosciences Field Cochrane Review Group on Drugs and Alcohol

L’articolo di Antonio Bonaldi si propone di affrontare il tema dell’incertezza della conoscenza, sviluppando una critica dai toni scoraggiati nei confronti della medicina basata sulle prove e un’acuta attenzione verso pratiche magiche che sembrano avere successo. Il quesito conclusivo è come fare perché la medicina si possa riappropriare della “non conoscenza”.

Dal mito della caverna di Platone alla falsificazione delle prove di Popper, l’intelletto umano ha avvertito i suoi limiti e non ha rinnegato l’affermazione “so di non sapere”: la percezione critica dei 4 limiti della conoscenza è il presupposto dell’atteggiamento scientifico. Pertanto la “non conoscenza” è parte integrante della scienza perché ne rappresenta l’inevitabile limite.

La medicina, in particolare, usufruisce di conoscenze scientifiche (falsificabili e quindi suscettibili di modifiche) ed è influenzata da aspetti sociali, economici, culturali nel senso più ampio del termine, sommando da ambiti differenti limitazioni e criticità che favoriscono un ampio margine d’incertezza nell’operato dei sanitari. Se la percezione dell’incertezza è limitata presso i cittadini, la medicina basata sulle prove (EBM) (Greenhalgh T, Howick J, Maskrey N. Evidence based medicine: a movement in crisis? BMJ 2014;348:g3725) serve a evidenziare gli ambiti in cui le prove non ci sono, oppure a smascherare quelli in cui le prove sono fittizie (Tom Jefferson in www.attentiallebufale.it ha fornito degli esempi).

La metodologia EBM non solo considera studi che fanno uso del placebo, se praticabili, attribuendo al placebo una riconosciuta funzione terapeutica, ma si presta a indagini che riguardano interventi non farmacologici, come le tecniche psicoterapiche o la meditazione, oppure le medicine non convenzionali, come l’agopuntura, oppure aspetti organizzativi di gestione della malattia, come le modalità di assistenza a domicilio. In altri termini l’EBM resta una metodologia finalizzata a distinguere gl’interventi efficaci dagli inefficaci, se possibile, e l’oggetto d’indagine è molto disparato.

L’EBM non si esaurisce nello studio randomizzato e controllato per valutare l’efficacia dei trattamenti (che resta comunque il più importante modello sperimentale per valutare efficacia e sicurezza di un intervento) ma valuta anche la validità e l’affidabilità di risultati che provengano da studi non randomizzati quando questi offrono le uniche prove disponibili; inoltre quantizza l’appropriatezza diagnostica di esami strumentali e di screening su popolazione integrando vincoli di natura economica e tenendo conto dell’organizzazione dei servizi.

Gli elementi tecnici sono poi costantemente integrati con l’esperienza professionale in un determinato contesto e con le preferenze del paziente (Sackett DL, Rosenberg WMC, Gray JAM, Haynes RB, Richardson WS. Evidence based medicine: what it is and what it isn’t. BMJ 1996; 312) consentendo di trovare un indirizzo anche quando ci si muove in un ambito privo di conoscenze scientifiche, offrendo ai clinici la possibilità di parlare con onestà al paziente ammettendo l’incertezza e condividendo le scelte terapeutiche.

La limitatezza delle prove non è attribuibile al metodo EBM: la produzione di studi di buona qualità risente di disponibilità di fondi, del riconoscimento del conflitto d’interesse, di una diffusa cultura metodologica (la più importante innovazione del movimento EBM è il bagaglio di “critical appraisal” della letteratura medica) e della capacità di individuare le misure di esito di reale interesse per il paziente, come ci è stato sottolineato da Alessandro Liberati (Alessandro Liberati. Un decennio di EBM: un bilancio non proprio imparziale in Etica, Conoscenza e Sanità – 2005 Il Pensiero Scientifico Editore).

Il nesso fra gestione dell’incertezza e capacità terapeutiche degli sciamani non è stringente perché questi ultimi solitamente esprimono certezze, magari fallaci o nocive, comunque estranee ad un atteggiamento critico (non scienza). Dovremmo apprezzarne la capacità di ottenere ampia audience? Non ci sembra un interessante confronto perché si basa sulla mistificazione e destinato ad essere smascherato.

Se alla cosiddetta medicina non scientifica si dovesse guardare con curiosità per i successi che ottiene, che dire di quando assume le caratteristiche del disprezzo per il metodo scientifico come nel caso Di Bella o nella vicenda Stamina?

Indipendentemente dagli aspetti giudiziari delle vicende, consideriamo con attenzione che all’origine vi è stata la determinazione a dare delle risposte ai pazienti senza attendere gli esiti degli studi, senza volerne riconoscere il valore se fossero stati condotti, facendo del proprio giudizio il metro per agire. Un metodo serve anche a proteggere da noi stessi e dalle infatuazioni che l’intelletto umano presenta.

Noi non conosciamo altro modo per “sottrarre la non conoscenza ai mercanti e ai venditori di elisir” che cercare e valorizzare le pratiche di provata efficacia mediante un’attività professionale onesta, chiarendo in modo aperto con i pazienti di qualunque estrazione culturale i limiti inevitabili di quello che facciamo. La relazione con i pazienti ne guadagna ed è quello il miglior placebo.


Andrea Gardini

Mi sembra una buona esposizione di cose che condivido. L’unico dubbio è che, se sono in Mongolia nel deserto, sto male e sono senza una medicina occidentale, non mi resta che affidarmi allo sciamano, che è l’unico livello di conoscenza competente relativamente a quel contesto in cui mi son cacciato. Magari lì funziona. Magari no. Magari ero io che facevo meglio a non cacciarmi in quel pasticcio con la mia smania di girare il mondo….

Io penso che queste due culture convivono, ma che conviene alla specie umana, nel contesto più adatto, scegliere quella con maggiori prove di efficacia terapeutica, ben sapendo che i commercianti e gli imbroglioni stanno dalle due parti, quella delle conoscenze avanzate e quelle di quelle arretrate. Forse i peggiori imbroglioni stanno fra le prime, quelle apparentemente più avanzate, perché hanno la cultura per fare quelle migliori. per questo non sopporto gli omeopati convinti… ma rispetto gli sciamani.


Giorgio Bert

Il documento dei rappresentanti Cochrane è bello e condivisibile; restano tuttavia delle questioni aperte.

Ad esempio, in quanto medici slow, come ci comportiamo con pazienti che utilizzano e si fidano di pratiche non scientificamente verificate? Le condanniamo? Le dispregiamo (e con esse il paziente stesso)? Ci confrontiamo? Le ignoriamo (“faccia quel che le pare, ma io le dico…”)? Ci incazziamo? Alziamo gli occhi al cielo? Non ho risposte, ma penso che SM dovrebbe esprimere un pensiero un po’ articolato in proposito.

Altra questione: mettiamo in un unico calderone tutto ciò che scienza non è? Ad esempio preghiera, Lourdes, psicoterapia, medicina narrativa, musico e arteterapia, omeopatia, ayurvedica, reiki, shatzu, nutraceutica ecc. ecc., tutto quanto ammucchiato in una stessa categoria insieme a vere e proprie truffe tipo staminali o Hamer? La vita stessa è evidence based solo in minimissima parte, il che non ci impedisce di viverla e, qualche volta, perfino di godercela.

In quanto progetto sistemico SM non dovrebbe a mio avviso poggiare esclusivamente su ciò che è EBM: le emozioni, il non razionale, altri modelli di cura esistono comunque, influenzano la salute e richiedono da parte nostra una presa di posizione che non si limiti a negarne l’efficacia come se il solo strumento per valutare quest’ultima fosse quello che noi, semplificando non poco, definiamo con una definizione ex post “metodo scientifico”.

Strumento certo irrinunciabile ma non esaustivo né tanto meno dogmatico.


Antonio Bonaldi

Mi fa molto piacere poter tornare sull’articolo “Gestire la non-conoscenza in medicina”, perché mai avrei pensato di poter utilizzare toni scoraggianti per descrivere l’EBM e avere acute attenzioni verso le pratiche magiche, ma questo fa parte della vita.

Di fatto nell’articolo non avevo alcuna intenzione di parlare dell’EBM di cui, peraltro mi reputo un cultore convinto. Fin da giovane neolaureato sono stato attratto dalla metodologia della ricerca, dall’epidemiologia e, cosa assai rara per quei tempi, dalla sanità pubblica. Nell’ormai lontano 1984 6 (allora non si parlava ancora di EBM) ho curato l’edizione italiana del “Bestiario Biomedico”, un simpatico libretto che con molto acume e in modo spassoso descriveva, attraverso un pittoresco zoo antropomorfo, i più comuni errori, i paradossi e le interpretazioni fallaci che tuttora affollano la letteratura medica (a dire il vero, dato l’argomento, non è stato un grande successo editoriale). Per saperne di più mi sono anche preso la specialità in statistica sanitaria e ho seguito fin dal nascere, dapprima l’epidemiologia clinica e poi l’EBM. Da direttore sanitario sono sempre stato orgoglioso di tenere in bella evidenza sulla scrivania il “Clinical Evidence Handbook”, anche se non potevo certo rallegrarmi nell’apprendere che solo l’11% della pratica clinica era EB. Vi ringrazio quindi delle opportune precisazioni perché riconosco che la mia citazione dell’EBM, superficiale e sbrigativa, poteva dar adito a cattivi pensieri, mentre era solo un tentativo malriuscito di riferirmi, ironicamente, a coloro che sono vittime dell’illusione che EBM e metodo scientifico siano l’unico modo giusto di acquisire la conoscenza e di praticare la medicina, quelli che Nassim Taleb definirebbe i razionalisti ingenui. Dopotutto, anche Feynman (premio Nobel per la fisica) ci ricorda che se una cosa non è scientifica, non vuol dire che c’è qualcosa che non va e non necessariamente è un male.

In effetti l’EBM, cioè il trasferimento del metodo scientifico (meccanicistico-riduzionista) nell’ambito della ricerca biomedica, di cui tutti noi riconosciamo l’importanza, è solo la metà del cielo. Vi sono proprietà e fenomeni che scientifici non sono e che non possono essere né studiati, né spiegati limitandosi a osservare le singole componenti (attenzione non mi riferisco né alla magia, nè all’occultismo, né ai miracoli). La scienza della complessità sta rivoluzionando l’intero mondo delle nostre conoscenze. Fisici, biologi, antropologi, sociologi, filosofi, economisti e manager sono tutti quanti impegnati a rivedere le proprie conoscenze. Non per sostituire l’approccio sistemico (quello che fa capo alla scienza della complessità) a quello meccanicistico (quello scientifico, per intenderci) ma per aggiungere una nuova straordinaria dimensione sul cammino della conoscenza. Secondo la definizione di Khun, stiamo assistendo ad un vero e proprio cambio di paradigma nello sviluppo della conoscenza, di cui però la maggior parte delle persone (medici compresi) ne sa più o meno quanto ne poteva sapere del metodo scientifico uno speziale alla fine del seicento. Riconoscere, studiare e confrontarsi con la dimensione sistemica della vita e della medicina è proprio uno dei messaggi più rilevanti di Slow Medicine e quello che più di ogni altro (parlo per me) ne giustifica l’esistenza.

Comunque, il senso del mio articolo non era neppure quello di riferirmi alla conoscenza non scientifica, che pure conoscenza è, altrimenti cosa ne sarebbe dell’arte, della filosofia, dell’etica, dell’antropologia, o più semplicemente delle emozioni e dei piaceri. Non era neppure mia intenzione parlare dei metodi della ricerca scientifica o delle ingenuità su cui si fonda il funzionamento delle medicine alternative, come, ad esempio, la memoria dell’acqua nel caso dell’omeopatia.

Quello di cui volevo parlare è proprio della non-conoscenza (acquisibile o meno con i metodi scientifici o sistemici), la “terza faccia” della medaglia, quello che ignoriamo, che non vediamo, che non comprendiamo e con cui, comunque, siamo costretti quotidianamente a interagire, magari solo in fiduciosa attesa che prima o poi saremo illuminati.

La medicina corrente (dalla diagnosi, alla terapia) straripa di quesiti che restano senza risposta e di pazienti che presentano sintomi privi di base organica (Medical Unexplained Symptoms), ma il mondo accademico, e non solo quello, s’interessa solo di ciò che conosciamo e che presumiamo di conoscere e ci aiuta ben poco a gestire ciò che non conosciamo. Cosa ne facciamo del resto? Va bene, facciamo ricerca e intanto? Ognuno (medico e paziente) si arrangia per conto suo a trovare le soluzioni, i trucchi, i piccoli stratagemmi più o meno ingegnosi ed efficaci che gli tornano utili? E quando magari qualcuno ha trovato il rimedio che male non fa e che va bene per lui (che ne so: una tazza di latte e miele, un infuso di ippocastano, un rimedio omeopatico, una passeggiata nei boschi, un consiglio di un amico fidato), in nome della scienza, gli diciamo che deve abbandonarlo perché secondo i canoni dell’EBM non funziona, o non è ancora stato provato? Ma gran parte di ciò che costituisce le nostre vite non è, né mai potrà essere EB e in questi casi è proprio lui la prova vivente dell’efficacia. Se il 7 rimedio lo trova da solo va bene, ma se glielo dico io no? È ovvio, ma forse vale la pena di ribadirlo, non sto parlando né di curanderos, nè di ciarlatani, né di truffatori, di cui il mondo, e non solo quello sanitario, purtroppo pullula, e soprattutto, purtroppo, non ho risposte ma solo interrogativi.

Quello che mi preoccupa è che di fronte all’ignoto molti medici, spesso solo per giustificare il proprio ruolo, tendono ad utilizzare (a sproposito) gli unici strumenti che hanno imparato ad usare, cioè prescrivere esami, visite specialistiche, interventi e farmaci, esponendo, così, i malcapitati pazienti ad un “overuse” incontrollato, inappropriato e inutile di prestazioni, con piccoli benefici e conseguenze imprevedibili e dannose. L’assenza di una vera relazione impedisce di attivare le capacità della persona di mettere in atto inaspettate forze di guarigione o semplicemente di aspettare che la natura faccia il suo lavoro (vis medicatrix naturae) e ciò potrebbe indurre le persone a ricercare soluzioni alternative, affidandosi a persone senza scrupoli, cioè proprio quello che vorremmo evitare. In alcuni casi, anche se è difficile ammetterlo perché potrebbe risuonare come un insulto alla vanità dei professionisti, l’arte della medicina consiste ancora in ciò che raccomandava Voltaire tre secoli fa: distrarre il malato mentre la natura lo guarisce.

Fabrizio Benedetti ci dice che contesto di cura, empatia, rispetto, aspettativa di un beneficio, speranza di guarire, svolgono un ruolo cruciale nella cura e agiscono in modo indipendente dal principio attivo che viene somministrato, ma è stato anche dimostrato che la somministrazione di un placebo (qualsiasi esso sia) è più efficace che non dare niente e limitarsi alle parole. Oltretutto sono davvero pochi i medici che riescono ad instaurare una buona relazione di cura con il paziente, anche perché nessuno glielo insegna. Allora che fare?

Il 4 aprile scorso la Repubblica pubblicava i risultati di un’interessante indagine sulle patologie che vengono curate con rimedi omeopatici. Il 60% riguarda raffreddori e influenza, a seguire molto più distaccati, dolori articolari, problemi digestivi, insonnia, disturbi agli occhi… tutti problemi per i quali la medicina non ha praticamente soluzioni. Confesso che tra un medico che per curare una malattia virale usa l’antibiotico e uno che usa un rimedio omeopatico, preferisco il secondo (lo so, non centra nulla con l’EBM e il buon medico non dovrebbe usare né l’antibiotico, né il prodotto omeopatico, ma tant’è). Cattiva scienza, ma buona medicina, ci dice Des Spence, dalla pagine del BMJ.

Lo scopo di questa rubrica, che Giorgio Bert ha stupendamente introdotto come una piazza, ha proprio lo scopo di porre interrogativi, presentare punti di vista diversi, introdurre un sano scetticismo sull’efficacia a 360° della medicina (Gianfranco Domenighetti, ”La medicina delle prove di efficacia” a cura di Alessandro Liberati) e avviare una discussione aperta e costruttiva capace di stimolare la curiosità e l’interesse delle persone verso le sfide di un sapere in perenne evoluzione. Insomma, come ci ricorda Edgar Morin: bisogna apprendere a navigare in un oceano d’incertezze attraverso arcipelaghi di certezza.

Mi auguro che la discussione continui produttiva come in questo caso e che continuiate ad assicurare con immutata passione e competenza il vostro prezioso supporto alle nostre iniziative.


Giorgio Bert

Due riflessioni: Prudenza nel riferirsi a Kuhn: se per “cambio di paradigma” alludiamo al passaggio da un modello meccanicista a uno sistemico non sono così sicuro come lo era Kuhn che i due paradigmi siano tra loro “incommensurabili”: quello meccanicistico è parte (proprio per definizione di sistema) di quello più complesso sistemico, e non perde la propria validità all’interno della cornice ad esso propria. Se non fosse possibile “estrarre” e analizzare segmenti lineari dalla complessità sistemica, gran parte della ricerca scientifica sarebbe bloccata e l’astrologia avrebbe lo stesso valore della biochimica. Ovvio che si tratta sempre di esperimenti, di simulazioni, di situazioni che non rappresentano “la realtà” (probabilmente per noi inconoscibile e irrappresentabile nel suo insieme); l’errore sta nel convincersi 8 che la descrivano in toto o ne costituiscano un modello “vero” e non già una “figura”, un’immagine parziale e incompleta. “La realtà”, ciò che sta “lì fuori” non è scientifica e non può essere conosciuta scientificamente se non in minima parte.

La migliore immagine che ho trovato per narrare il concetto di cura in tutti i suoi aspetti, inclusi quelli “non scientifici” è premoderna: deriva da Hildegarde di Bingen, monaca e medico dell’XII secolo, ampiamente studiata ai giorni nostri da Victoria Sweet; essa può essere così sintetizzata:Il corpo non può esser paragonato a una macchina, similitudine questa che divenne dominante qualche secolo dopo e rimase in auge fin quasi ai giorni nostri. Il corpo somiglia invece a una pianta e il medico a un giardiniere. Se una macchina si rompe non può aggiustarsi da sola; se una pianta viene danneggiata o ferita essa può in larga misura curare e guarire se stessa senza interventi esterni (ecco la vis medicatrix). Il medico-giardiniere è quindi molto diverso da un medico-meccanico: se una pianta soffre non si precipita a caricarla di interventi ,di rimedi, di pesticidi ma comincia col domandarsi (e a domandarle!): “Di cosa ha bisogno? Più sole? Più ombra? Più acqua? Un terriccio diverso? Nutrimento? Eliminazione di parassiti? Quali sono le sue risorse naturali che possono venire esplorate e incentivate?” Gli interventi non emergono quindi dal giardiniere ma dalla relazione della pianta col giardiniere. Talvolta è la pianta stessa a suggerirglieli, talaltra è lui a proporli in base a ciò che osserva e conosce. La pianta sa cose che il giardiniere ignora. La relazione tra i due è la “cura” e, come ogni relazione, non è “scientifica” (è irripetibile, variabile, modificata dal contesto e dal tempo, non riproducibile, non misurabile…).