Giuseppe Amato. Prigionieri dell’eternità. Leone editore. Milano 2022. Pp.312. € 13,90. Recensione di Marco Bobbio

 

Cosa succede in un mondo dove la ricerca clinica non ha vincoli etici e può imporre qualunque trattamento sperimentale su inermi pazienti con lo scopo di individuare nuovi prodotti da immettere sul mercato? Dove l’accanimento terapeutico è obbligatorio perché bisogna continuare a eseguire sofisticati (e inutili) accertamenti diagnostici e ad aggiungere sempre nuovi farmaci? Dove i cittadini devono investire gli ultimi risparmi per complesse procedure che li renderanno immortali, senza sapere se si potrà mai tornare in vita?  Dove la scienza non ha lo scopo di far star meglio le persone, ma di prescrivere nuovi farmaci? Dove vengono perseguiti i medici che si mostrano empatici con le sofferenze dei pazienti? Dove la ragione di Stato ha il sopravvento sulle prove scientifiche? Tutto questo succede a Kaleydos, lo Stato totalitario descritto da Giuseppe Amato, un internista che ha sempre praticato una Slow Medicine prima ancora che venisse fondato il movimento. Si tratta di uno Stato dove il potere è tenuto da una oligarchia di affaristi che, utilizzando anche imperativi religiosi, permea la vita dei cittadini divisi rigidamente in classi e perennemente sfruttati dal sistema. Il dogma, non dimostrato, è che in quel paese regni l’immortalità: quando sono state utilizzati tutti i dispositivi medici e somministrati tutti i trattamenti disponibili per tenere in vita corpi ormai esausti, il cervello viene virtualizzato e il corpo plastificato per essere conservato nel Giardino degli Immortali. I cittadini sono costretti a lavorare 16 ore al giorno per procurarsi i soldi (i sanithar) che serviranno loro per comprare cure, test diagnostici, per essere seviziati dall’accanimento terapeutico e infine per procurarsi le costosissime procedure per la plastificazione, visto che curarsi è obbligatorio per legge. Per non prestare il fianco alla critica di essere uno Stato totalitario viene tollerato un Movimento di contestazione, i cui adepti sono controllati costantemente dalla Polizia Sanitaria e vengono fatti sparire o viene loro riprogrammato il cervello quando rischiano di compromettere l’integrità della Religione Unica. In profondi scantinati opera però una clinica clandestina dove un medico, di quelli di una volta, aiuta le persone a morire con decoro e dignità, sedandole e lasciando che la morte arrivi senza sofferenze e dolori. “Per fare i medici – insegna il medico alternativo – non siamo obbligati a dipendere dalle macchine. Dobbiamo prestare attenzione a quello che ci comunicano i nostri sensi, le orecchio, gli occhi, il cuore”. Kaleydos è la metafora della troppa medicina, della sovradiagnosi e dei sovratrattamenti praticati al solo scopo di procurare profitto a chi produce beni e servizi e dove tutto il sistema funziona per vendere prodotti sanitari e non per migliorare la vita dei cittadini. Una metafora di una certa medicina che tende a preferire procedure non ancora sperimentate ma che sanno di innovativo, a sovraprescrivere secondo la logica del non-si-sa-mai, a occuparsi di patologie in funzione della tecnologia disponibile, a organizzare il lavoro più in funzione del prestigio personale che delle esigenze dei pazienti.